Enrico Crispolti - Associazione Peschi

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Enrico Crispolti

 


Il Futurismo a Roma. Anni dieci-quaranta
E' certo giusto, come si sta facendo ormai da alcuni anni, e con adeguata attenzione alla ricostruzione storica approfondita di singole situazioni ed eventi, parlare dei “luoghi " del Futurismo, una volta questo restituito storiograficamente alla realtà del suo percorso in quanto movimento teso alla " ricostruzione " creativa dell'universo in tutti i suoi aspetti, lungo tre decenni, dall'inizio degli anni Dieci alla fine dei Trenta. Recuperando così la fisionomia di un movimento che fu largamente ubiquitario nelle sue molteplici situazioni e nei suoi centri lungo l'intera penisola. Tuttavia, fra quei " luoghi ", vi furono certamente anche, diciamo, delle capitali: e queste, Milano, certo, e poco dopo Roma.
Non si tratta in realtà soltanto di varietà geografica di centri, sia per i maggiori, e con Milano e Roma" sicuramente Firenze e poi Torino, sia per i minori; ma di differenziazioni sensibili, e a volte assai pronunciate nella caratterizzazione di una particolare " poetica " comune entro i singoli ambiti. E, sotto il profilo storico-critico, l 'apprezzamento di una specificità del Futurismo romano, come assai diversa da quella del Futurismo milanese, si è andata infatti definendo già nei primi anni Sessanta. Direi quando ci si è resi conto dell'importanza della personalità di Balla in una sorta di sua alternativa di prospettive rispetto alla personalità, egemone nell'area milanese, di Boccioni.
Attorno a Balla a Roma, anzitutto Depero e Prampolini, quindi la gravitazione di Dottori. Ma, una volta che la restituzione storiografica del Futurismo la si sia impostata sul parametro appunto dell'intenzione ricorrente, se non comune, di " ricostruire " creativamente l' universo, e dunque si sia posta attenzione, liberandosi da una visione pitturocentrica, a tutti gli aspetti appunto dell'intervento creativo futurista, quell'alternativa è venuta a delinearsi veramente come diversità di orizzonti di " poetica " complessiva, di un ambito culturale futurista rispetto ad un altro.
Così, avvertita adeguatamente, per esempio, l'importanza a Roma di Prampolini per una visione architettonica futurista, già parallelamente (se non lievemente anticipandolo) a Sant'Elia (e a Chiattone) a Milano, come suggeriva credo esaurientemente la grande mostra torinese del 1980 intitolata appunto alla "ricostruzione futurista dell'universo", si è potuta recuperare al di dentro dell'alternativa di " poetica " del Futurismo romano, accanto a quella propriamente pittorica, anche una propriamente architettonica, aggregata fra gli stessi Balla e Prampolini, e poi Marchi.
Quale, in poche .parole, la specificità di questa " poetica " comune del Futurismo romano? Una tensione di carattere inventivo molto più accentuata, rispetto all'analogismo realistico-esistenziale della sintesi plastica dei milanesi. Una maggiore accensione creativa nel senso di una libertà sconfinata d'analogismo plastico, che utilizzava soluzioni di carattere più sintetico, nella tensione astrattiva.
A metà degli anni Dieci si ha una svolta decisiva in questo senso, con l'elaborazione del " complesso plastico “, strumento linguistico grammaticale operativo per quella libertà d'invenzione d'analogie plastiche. E' un nodo che investe al tempo stesso gli interessi creativi di Balla, di Depero, e di Prampolini, e che si colloca in un dialogo europeo. AI di là di quelle che sono state le esperienze artistiche di Balla, soprattutto, dei primissimi anni Dieci. Un nodo che la stessa mostra torinese del 1980 molto chiaramente ricostruiva, e sul quale occorre comunque ancora riflettere e indagare, anche per rapporti e conseguenze, e parallelismi europei.
Da quel nodo certamente nasce poi il momento " meccanico ", all'inizio degli anni Venti, traversato in piena libertà ed eterodossia da Balla, teorizzato invece e praticato con rigore da Prampolini, Pannaggi, Paladini, De Pistoris. Ma la creatività del Futurismo romano interessa appunto a tutto campo la " ricostruzione " dell' universo. Di qui dunque il fenomeno delle " Case d'arte ", la produttività oggettistica e d'arredo di Balla, di Prampolini, di Giannattasio, e insieme la molteplicità degli interessi di Bragaglia. Di qui naturalmente anche il senso dell'intensissima attività teatrale, scenografica, testuale e teorica (Balla, Depero, Prampolini, ancora, anzitutti).
Gli episodi del Futurismo romano nei primi anni Venti sono svariati, intrecciandovisi (e già anzi nello scorcio dei Dieci) anche una significativa partecipazione a Dada [da Prampolini stesso a Evola); e definendosi in svariate imprese, anche murali e ambientali (Balla, Depero, Ciacelli). Con l'installazione a Roma di Marinetti, lasciando Milano, la centrale futurista intanto vi si è spostata direi anche istituzionalmente.
Da questo centro il dialogo è intenso con i torinesi (fra gli avanzati anni Venti e i primi Trenta una delle situazioni " locali " più agguerrite e produttive: da Fillia a Diulgheroff, a Oriani, a Rosso), con i siciliani (Rizzo, Corona), con i calabresi (Benedetta); più tardi in particolare con i marchigiani, che lavorano anzi a Roma (Tano, Peschi, Monachesi), intrecciando la loro attività (anche murale) con quella del costituito nuovo gruppo futurista romano (Blocco dei Futursimultanisti), che correva da Belli a Favalli. Ma che s'aggregava sostanzialmente attorno a Prampolini stesso, come in altre nuove presenze, quale quella di Delle Site.
E' una vicenda lunga e complessa, entro la quale, negli anni Trenta, contano anche le occasioni delle grandi esposizioni ufficiali; non dico soltanto le partecipazioni alle Quadriennali nazionali, ma quell'aspetto, ancora adeguatamente da valutare, della progettazione d' ambientazioni per esposizioni tecniche, materiologiche, o merceologiche, nelle quali I'inventività futurista (a cominciare dall'inesauribile Prampolini) aveva modo di realizzare soluzioni di grandissima efficacia, e memorabili (i progetti per l'E42 ne saranno in certo modo la conclusione).
Una vicenda che merita una adeguata ricostruzione, anche attraverso l'ampia attività pubblicistica, sia di fogli specifici, come " Noi ", " Avanscoperta ", " Roma Futurista ", ' Il Futurismo ", " Futurismo " e poi " Sant' Elia Futurismo " e " Artecrazia ", sia attraverso le pagine futuriste come in " L'Impero " e " Ogqi e Domani ". E questa mostra, ordinata per presenze salienti ed esemplari entro lo schema, un po' rigido certo ma in qualche modo indicativo, dei decenni, può offrire uno spunto, un suggerimento, per il lavoro futuro.
Anche se in realtà un suggerimento soltanto d'ambito plastico; mentre la vicenda del Futurismo romano è stata anche naturalmente e in modo assai ampio, teatrale, scenografica, letteraria, in una realtà complessiva appunto di movimento inteso ad un'attività di espansione in molteplici ambiti d'intervento creativo. Del resto il nodo stesso della visione totalizzante della " ricostruzione futurista dell'universo " è tipicamente romano.

ENRICO CRISPOLTI

(Testo in catalogo per la mostra a Roma, organizzata dalla Galleria Editalia dal 23 ottobre al 30 novembre 1985)
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Peschi e il Secondo Futurismo
Non soltanto per quanto riguarda il passato, ma anche per quanto riguarda il nostro tempo la realtà dell'arte italiana non è comprensibile se non nella molteplicità delle sue localizzazioni. La situazione della cultura artistica italiana nel passato quanto negli ultimi decenni non è risultata infatti, ne risulta ora, accentrata ma articolata invece attraverso diversi importanti luoghi culturali della penisola, maggiori e minori. È dunque di fatto una situazione di notevole decentramento, come del resto si verifica quanto alla dimensione della vita sociale e della tensione politica. Non è una novità di questi ultimi decenni, ma una caratteristica che percorre tutta l'arte italiana del nostro tempo. Il panorama della quale non solo si articola per correnti e posizioni diverse, ma per diversità di matrici di ambienti culturali secondo appunto un'articolazione geografica decentrata. E basti ricordare, per fare un esempio clamoroso, la diversità, nella prima metà degli anni Dieci, fra il futurismo milanese pragmaticamente drammatico e conflittuale, egemonizzato dalla personalità di Boccioni, e quello romano, sperimentale e inventivo, dominato dalla personalità di Balla. E se si sappia prescindere dai luoghi comuni del punto di vista della critica ufficiale, che limita i propri interessi, storici quanto attuali, a ciò che è accaduto nell'area settentrionale e centrale, fino a Roma praticamente, ci si accorge che una grande vitalità ha percorso e percorre appunto l'intera penisola. E che il Sud rappresenta una grossa riserva di creatività dalla quale provengono in buona parte le mozioni più significative dell'arte italiana degli ultimi decenni. Naturalmente una tale situazione di articolato decentramento comporta una serrata dialettica fra centri maggiori e centri minori, fra centralità e periferia. La periferia infatti fornisce i rincalzi alla situazione centrale, e contribuisce in modo spesso determinante ad alimentarla. Ma l'articolazione di una realtà locale comporta anche una capacità di partecipazione appunto decentrata, cioè variamente localizzata, distante dai centri maggiori, nel dibattito artistico attuale. Un'area di grande riscontro è stata, sia nei decenni fra le due guerre, sia dopo la seconda guerra mondiale, nella fascia centroitaliana, l'area marchigiana, affluente e influente soprattutto su Roma. E infatti alcuni componenti fondamentali dei diversi versanti problematici della famosa «Scuola Romana» nello scorcio degli anni Venti e nei Trenta sono marchigiani: Scipione, Cagli, Fazzini. Ed altrimenti nel Futurismo romano è affluita dialetticamente una componente marchigiana negli anni Venti-Trenta: da Tano a Monachesi, da Peschi a Tulli. E d'altra parte eventi della realtà romana dell'lnformale negli anni Cinquanta e oltre hanno la loro origine marchigiana: a cominciare da Mannucci. La realtà della cultura artistica nelle Marche può risultare paradigmatica come situazione di vitalità decentrata, nella sua particolare matrice (di atavica cultura agraria, terricola), e al tempo stesso nella sua intensità di rapporto dialettico con grandi centri, a cominciare da Roma appunto in particolare. Questa mostra offre l'occasione di considerare le singolarità dell'opera attuale di cinque artisti italiani inquadrandole nell'orizzonte di una origine culturale comune, e sia pure attraverso momenti problematici quanto generazionali diversi. l cinque artisti qui presenti non soltanto infatti sono marchigiani,e dunque provengono sia pure in misura dialettica diversa da un analogo ambito culturale, ma hanno deciso di lavorare nelle Marche, cioè di assumere la loro particolare localizzazione nella geografia culturale nazionale come dato caratteristico e come rispondenza ad una particolare propria ancestrale quanto secolare matrice culturale.
Due di loro provengono dalle file di quello che trent'anni fa proposi di chiamare «Secondo Futurismo», cioè degli svolgimenti delle ricerche futuriste fra le due guerre (il Futurismo italiano infatti non è morto nel 1915-16, ma si è allora rinnovato in ulteriori aperture problematiche). Ed esattamente dall'ambito di quella situazione marchigiana del Futurismo egemonizzata dal «Gruppo Boccioni», maceratese. Sono Peschi, scultore in legno dagli anni Trenta a oggi, e Tulli scultore ma soprattutto pittore, fra i più giovani fu- turisti operanti negli anni Trenta. Proprio entro lo stesso Futurismo fra le due guerre si può verificare infatti ulteriormente la realtà dell'articolazione della cultura artistica italiana contemporanea, ed esattamente attraverso quelli che non a torto sono stati chiamati i «luoghi» diversi del Futurismo italiano. E ci si può interrogare allora su gli eventuali nessi che corrono fra quelle lontane esperienze e il fare attuale, non solo di due personaggi or- mai «storici» come appunto Peschi e Tulli, ma anche di artisti più giovani. E dunque come, al di là delle traiettorie di esperienze personali, un modo di ancora possibile sollecitazione si possa verificare fra il Futurismo e la ricerca attuale. Che è quanto, per esempio, mi sembra avvertibile in un certo particolare dinamismo che traversa le impalcature strutturali d'origine postcubista utilizzate nel narrativo di Torregiani. E se d'altra parte il nesso di Torregiani con la tradizione di dinamismo plastico fu- turista può avere un suo senso preciso, non v'è dubbio che lo sperimentalismo di Craia si motivi in una libertà indubbiamente consapevole di lontane esperienze di frattura nell'implicita dedizione ad un mito di modernità, che fu proprio del Futurismo. Una consapevolezza particolare anima la situazione artistica marchigiana in senso sperimentale. E tuttavia non è soltanto il precedente delle esperienze futuriste del «Gruppo Boccioni», e di Pannaggi che l'aveva preceduto, negli anni Venti, ma anche una formulazione fondamentale nel quadro dell'astrattismo "storico" italiano quale sono stati gli svolgimenti dell'immaginario lirico di Licini, dagli anni Trenta ai cinquanta. Direttamente o indirettamente una linea di non-figurazione nelle Marche, da Tulli a Capo zucca, non può non fare i conti con la grande lezione di fantasia segnica lirica liciniana. Peschi, che negli anni Trenta ha realizzato originalissime visioni aerscultoree, è rimasto fedele al legno traendone negli ultimi decenni ipotesi di rigorosa strutturazione nel gioco formalmente serrato della contrapposizione fra pieno plastico e scansioni modulari di vuoti, di buchi. Sviluppando una propria singolare vicenda non-figurativa artigianalmente partecipata nell'intenso rapporto di manualità. Da quarant'anni a questa parte Tulli si è fatto il portabandiera di una ricerca non-figurativa folta di molteplici suggestioni immaginative, e che si colloca fra le grandi sponde delle conclusive esperienze segniche e materiche di Prampolini, e del materismo del Burri più memorabile, come dell'immaginario fantastico evocativo di Licini. Portando avanti un proprio gioioso discorso di combinazioni di "forme libere", nelle quali giocano intensamente il segno e il colore, allusivi, evocativi, fantastici. La sperimentazione di Craia si è svolta negli ultimi due decenni in una rinnovata attenzione alle possibilità della convergenza e delle connessioni fra segno, colore e scrittura, utilizzando suggestioni molteplici negli effetti comunicativi (fosforescenze, per esempio). Ma recentemente sembra che l'interesse maggiore in tale sperimentazione volga al mezzo pittorico nella sua capacità di evocazione lirica nella purezza dell'esercizio gestuale, rivendicando valori di affettività e di sentimento. Mentre per Torregiani prevalgono interessi narrativi, rileggendo singolarmente sintesi formali di base postcubista, e volgendole a ulteriori compiti di racconto, in chiave d'evocazione lirica, di incontri e situazioni di realtà quotidiana. Per Capo zucca lungo gli anni Ottanta conta invece una condizione
assai drammatica, ove quasi la dimensione del muro sembra  prevalere come palinsesto pittorico di segni allusivi ed evidenze iconiche. Capozucca è un figurativo nella misura della memoria in una forte partecipazione emotiva. Cinque personalità dunque assai diverse nel loro orientamento, ma che si connettono ad una tradizione specifica fatta di originalità ed indipendenza creativa. E queste presenze rappresentano anche una campionatura significativa della realtà del tessuto artistico italiano nella sua articolazione territoriale.

Enrico Crispolti


(Dal catalogo 5 Artisti dell'ltalia Centrale: Capozucca Pietro, Craia Silvio, Peschi Umberto, Torregiani Roberto, Tulli Wladimiro, Italian Cultural Institute “C.M. Lerici”, Stoccolma aprile-maggio 1988 - Schede critiche degli artisti di Lucio Del Gobbo) .
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UMBERTO PESCHI: MODULARMENTE
Fin dalle origini per Peschi il legno è stato il “mezzo” imprescindibile del far scultura. L'inventività esibita dalla sua "aeroscultura" dello scorcio degli anni Trenta e dell'esordio dei Quaranta è anche connessa ad una prestigiosa qualità d'ebanisteria nella complessa modulazione dinamica delle forme che configurano drammatiche e tese simultaneità d'immaginazione aerea, aggettivando corsivamente il tessuto delle superfici o rilevando i profili e le volumetrie, netti. E nel legno Peschi ha poi cercato una nuova possibilità di sintesi figurativa per forti profili plastici nella seconda metà degli anni Quaranta, approdando all'inizio dei Cinquanta all'enunciazione come di un dialogo fra distinte strutture plastiche ritmicamente intrecciate. Se negli ultimi anni Trenta la corsività modulante del lavoro in legno permetteva a Peschi la densità iconico-plastica delle sue originali "aerosculture", nei Cinquanta il nostro scultore ha rimotivato il proprio amore materico per il legno invece sotto il profilo della modulazione ritmica. Da metà dei Cinquanta infatti il legno non offre soltanto struttura ma occasioni di un rapporto ritmico ravvicinato nella configurazione corsiva, nella duttile materia; di un fitto gioco ritmico di iterazioni strutturali di pieni e vuoti, arricchito dall'operatività del "tarlo" che bucava il legno, in ulteriori interne sequenze di scansioni ritmiche. Un legno sempre povero, elementare, scoperto, prosaico, naturale (al  contrario delle più preziose soluzioni degli anni futuristi).
Peschi si trovava così a gestire all'inizio degli anni Sessanta, di fronte a incalzanti pretese di programmazione strutturale seriale paratecnologica imperanti una propria accentuata possibilità modulare anomala, costruendo soprattutto colonne ove un nodo strutturale era sì iterato (costituendole) ma del tutto corsivamente e con una continua invocazione di dialogo materico. Chiaramente Peschi rivendicava il fondamento artigiano di una propria cultura antropologica tipicamente centroitaliana. Ed è soltanto alla fine degli anni Sessanta che Peschi assume la modularità costruttiva nel suo rigore, facendosene da allora circostanza strutturale costante del proprio immaginare scultura. Le numerose "colonne" che costruisce negli anni Settanta, se lo evocano negli stessi titoli, dimostrano in realtà come il "tarlo" sia ormai tecnologicamente sedotto. O meglio, forse, manualmente ammiccano con onnipotenza operativa alle rigorose scadenze del prodotto meccanico, la cui iteratività ossessiona l'immaginario collettivo. Negli anni Ottanta Peschi ha compiuto una rilettura del proprio immaginario modulare, ma in chiave in certo modo diversamente monumentale. Nuove possibilità operative permettono tuttavia soprattutto una complessità di ben più ampio respiro rispetto alle esperienze precedenti (anche se in qualche caso si tratta dello sviluppo di bozzetti addirittura anche degli avanzati anni Cinquanta, o comunque dei Sessanta). La modularità è ora praticata come con la gioia di un gioco deduttivo a suo modo spettacolare; come in Doppia spirale, del 1957-87, nella crescita e decrescita di una avvitata e congiunta duplice spirale appunto, che assume più evidenza vagamente d'arcano organismo che non meccanica; o in quel Senza titolo, del 1987, tutto condotto originalmente in tre congiunti cicli espansivi di opposte concavità e convessità. C'è qualcosa al tempo stesso di forte, di costruito, d'intenzionalità costruttiva, ma anche di quasi ludica rivalsa fantastica in questa più libera benché monumentale nuova modularità della scultura di Peschi. In fondo nella sua immaginazione agisce sempre una sorta di orgogliosa sicurezza del fare e del fare ebanistico, della capacità di costruire oggetti lignei che hanno fascino magico nella scansione rigorosa della loro costruttività modulare, tuttavia flessa secondo un principio di fantasia che sembra riscattarne il senso ben al di fuori d'ogni analogismo funzionalistico. Pure calibratissime invenzioni formali di pura immaginazione plastica, come esiti di un sublime gioco, e si direbbe forti della loro esibita soddisfatta e sicura inventività.

Enrico Crispolti

(Dal catalogo della mostra Umberto Peschi: modularmente – anni 60 – Macerata – Centro storico – luglio agosto 1990)

 
 
 
 
 
 
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