Piero Ceccaroni - Associazione Peschi

Vai ai contenuti

Menu principale:

Piero Ceccaroni

PIERO CECCARONI
L’ORGOGLIO DELLA LIBERTÀ
Lucio Del Gobbo

La vicenda artistica di Piero Ceccaroni inizia quando, giovanissimo, sperimenta le suggestioni dell’arte ceramica sotto la guida dello zio Rodolfo, che nelle cantine del palazzo di famiglia a Recanati aveva costruito un forno apposito, e poi un altro ancora, al fine di dar sfogo alla sua creatività di pittore-poeta, consapevole del fatto che con la ceramica si può essere pittori, e si può essere anche poeti. Fu questa la prima grande lezione che lo zio impartì ai propri nipoti, tra cui Maria Grazia e Piero, futuri artisti entrambi. Piero, facile preda di immaginifici incanti per sensibilità ed indole,  non poteva sfuggire al fascino e all’arcano di certe alchimie sperimentate da quel “maestro” a lui così vicino, se non per età, per fantasie e sentimenti: “Erano operazioni complicate e laboriose quelle che lo zio svolgeva senza uscire dall'ambiente surriscaldato del forno per non prendere freddo e rischiare di ammalarsi; sua moglie lo assisteva in questa sua passione, portan¬dogli il pranzo su un cestino, alla maniera con cui venivano rifocillati i contadini nei lavori di campagna,  evitando che la cottura non subisse rallentamenti o inter¬ruzioni, con danno alle opere”. Al fascino delle cose che se ne traevano si aggiungeva quello delle tenerezze domestiche che vi si svolgevano. Miscuglio affascinante in un luogo magico in cui i ragazzi entravano con stupore e grande divertimento, catturati dal manifestarsi delle scoperte - che elettrizzavano anche lo zio quando capitavano -  e dalla varietà di emozioni che ne scaturivano. Rodolfo se ne compiaceva, invitava i nipoti a provare con pezzetti di argilla appena modellata, da cuocere in proprio. Era un uomo affettuoso, cordiale, di grandi risorse e fantasia, capace di inventare sempre qualcosa che rendesse il lavoro “sorprendente”. Avviandoli alla particolare disciplina della ceramica, condivideva con i nipoti segreti e peculiarità, rendendoli partecipi di uno speciale orgoglio: quello del fare originale, e dell’assoluta indipendenza creativa. Come tutti i ricercatori solitari trasmetteva il fascino di un’avventura diversa e particolare, seppur basata su una concezione classicheggiante, legata ai valori del passato, antitetica alle mode correnti - dunque antinovecentista - arricchita da inediti influssi regio¬nalistici,  oltre che stimolata da tradizioni popolari, come appunto se ne potevano cogliere in un ambiente di provincia prevalentemente  agricolo come quello recanatese dell'epoca. Era evidente, oltretutto, che quella sua attività artistica contribuiva a un’armonia e a una serenità  che si espandevano in famiglia, traducendosi per ciascuno in padronanza di sé  e senso di libertà. Il piccolo cenacolo era semplice, senza pretese, ma intriso di un amore infini¬to per l'arte che si trasmetteva con responsabilità dei giovanissimi  allievi, a cui lo zio, come già detto,  non mancava di affidare lavori da svolgere, impartendo consigli e spronandoli conti¬nuamente. L’esordio di Piero, come artista, si colloca appunto nel momento in cui gli venne  proposta un’idea da svolgere in pittura: evento cruciale che avrà i suoi sviluppi dopo decenni, quando egli, convinto ormai della propria vocazione artistica, decise di trarre profitto da quella tecnica e da quella indipendenza che suo zio gli aveva trasmesso come primo comandamento. Così, restando l’ammirazione e l’affetto, egli ne fece strumento per svolgere nel tempo un’autonoma ricerca, inventando modi e criteri  del tutto inediti, unicamente “suoi”. Tanta era stata la voglia di Rodolfo di testimoniare il suo tempo e le tradizioni del passato, quanto invece sarebbe stato l’intento di Piero di astrarsene in modo confacente: una visione fantastica, sensibilmente critica e introspettiva, era  quella che maggiormente si addiceva al suo carattere di artista intellettuale. Oltretutto, si rendeva conto che l’arte contemporanea era ormai avviata su una strada di crescente soggettività e individualismo, traendo da queste sue qualità la più invitante incondizionata indipendenza: luogo di originalità non solo in termini di esibizione, ma di indagine e scoperta, ove l’aspetto psicologico, introspettivo, fosse essenziale e determinante nell’esercizio del fare e dell’immaginare.  Anche il suo rapporto con la ceramica sarebbe stato diverso. Mentre suo zio modellava e decorava col desiderio di utilizzare le mani alla maniera degli artigiani, Piero considererà il lavoro e i materiali semplici strumenti di pensiero e supporto inventivo; ad interessarlo maggiormente sarà la pittura e i molteplici “voli” che essa consente. Restavano, comunque, dell’insegnamento originario, l’amore per il segno esatto e rigoroso, il nitore della visione, mai pasticciata ed approssimativa, seppur ricca di spontaneità, priva di ripensamenti, quasi fatale.
Rivedendo oggi ogni suo lavoro è come riscoprire in un fotogramma una particolare sensazione, occasionalmente catturata, unica, irrepetibile. Il pericolo della ripetizione è accortamente rifuggito, evitato quasi con repulsione. Non c’è ombra di programmazione nel suo procedere; il lavoro si svolge così, per effetto di un dettato quasi automatico, alla maniera dei surrealisti.  Il pensiero, anche lucido nell'indagare, è sempre legato a un’emozione dominante, e a un’aspettativa continua di rivelazione. “Se mancasse questo preferirei non fare!”. Una visione che cresce e si evolve interiormente, anche quando attinta da soggetti reali, come dal  paesaggio e la natura intorno, o da situazioni intensamente vissute. La ceramica se ne rende strumento atto a celebrare e tramandare nel tempo, con rituali che in qualche modo solennizzano l’occasionalità delle sensazioni in un assoluto emozionale consolidato. Piero è ben sicuro di avere in essa la sua “tecnica di elezione”, la più attraente e congeniale, suscettibile, oltretutto, di innovazioni e scoperte. La sua ricerca si fa carico anche di tale prospettiva, ponendosi come mai conclusa, sia in senso tecnologico o linguistico, sia riguardo alla poetica. La sua impressione è di trovarsi in “mezzo al guado”, in assoluta corrispondenza con un personale modo di essere, aderente alla propria indole. La componente artigianale si risolve soprattutto nella particolarità delle scelte che il materiale stesso suggerisce; la lavorazione è del tutto subordinata alle “necessità” dei contenuti. Nella visione affiorano impressioni vagamente gotico-fiorite, medievaleggianti, surreali ma di un nitore quattrocentesco.  Dei pittori del passato interessano particolarmente Bosch e Bruegel; ma sono richiami quasi fortuiti, graditi quanto inaspettati. Manca persino il desiderio di spiegarle a se stesso, le sue opere, tanto l’immaginazione vuol’essere autonoma e  incondizionata. Il paesaggio marchigiano vi è presente, ancorché trasfigurato, ed è un paesaggio “vicino”, familiare, amato. Piero rivela che la prima idea compositiva gli è venuta ispirandosi a certe rappresentazioni cartografiche delle proprietà di famiglia: i tipici cabrei. ”Decori” vegetali minuziosamente descritti, cieli a volte sereni altre volte corruschi, “lavorati” a punta di pennello; “germinazioni”, presenze minimali, “in fieri”, che acquistano sembianza tra il vegetale e l’umano. Dal tutto emana un ché di arcano e mistico; un fulgore ricco di spiritualità, elaborato nell’alternanza dei chiari e degli scuri, con rari inserti di colore sapientemente distribuiti. Prestiti da un immaginario anche infantile, che mette in relazione e confronto situazioni variamente vissute con la “certezza stabile” della natura, dei suoi campi, del suo cielo. La narrazione si rende avvincente anche per il suo grado di enigmaticità. E si dipana con la gradualità di un mosaico in cui ogni tessera, o “formella”, costituisce elemento di omogeneità pur mantenendo una “validità” propria. Il processo operativo stesso, nei vari stadi, nei suoi smontaggi e nelle sue ricomposizioni, è concepito in modo di preservare tale doppia opportunità di lettura: il particolare nel generale e viceversa. Emergono reminiscenze letterarie:un favoleggiare complesso che si snoda su registri ed umori alterni, emergenti da una percezione profonda, di ricordi e fantasiose sensazioni.  Piccoli uomini affaccendati, coprono con lenzuola parti di suolo: forse per nascondere e cancellare,  forse per custodire nell’angolo “domestico” ed intimo della coscienza. Fatti drammatici che accadono inattesi, con la fatalità di un destino…: l’uomo che da un asse di equilibrio  cade rovinosamente in un canneto. Dimore chiuse e spente, come in tempo di guerra. Soffitte gremite di  cianfrusaglie e giocattoli che si rioffrono ai giochi della memoria. A un immaginario bucolico, fuori del tempo, si contrappongono costruzioni meccanicamente  evolute, che alludono ad un presente supertecnologico non privo di rischi. Il ricordo si fa tutt’uno con la riflessione e un pensiero giudicante. “La mia visione non è chiara e risolta come quella di mio zio, ma sfiorata dall’ansia, a volte, e allo stesso tempo, per desiderio, da un intimismo conciliante e tenero; sempre e comunque rasserenata da elementi naturali, vicini alla sensibilità dell’agricoltore, alla terra, al grano, all’erba, a quella natura che non finisce mai di sorprendere e ammaliare”. Una visione lirica, uniformata ad un senso estetico latente ove l’accostamento delle componenti risulta in modo euritmico, significante. Piero dichiara di essere un inguaribile esteta “anche se l’estetismo non c’entra niente con il sentimento”. Ma nel suo caso le due componenti si combinano inscindibilmente: “L’arte, particolarmente la poesia e la bellezza, servono anche a questo, a conciliare l’esigenza dell’animo in un rapporto con l’universale”. Un proliferare di forme pulviscolari, che rappresentano appunto la bellezza disseminata nel paesaggio: espressione polimorfica di una natura che si rende dispensatrice di sentimenti. Un amore centellinato e goduto al massimo dell’emozione, quello di Piero rivolto al paesaggio, a quel paesaggio marchigiano di cui la poesia leopardiana è riflesso e benedizione. E nel procedere del racconto Kafka incrocia più e più volte il “giovane favoloso”.  La figurazione supplisce alla scrittura e alla parola stessa. “Nell’arte di Piero c’è tanto pensiero, scritto in gioventù di suo pugno”: è sua sorella Maria Grazia ad affermarlo puntualizzando.  
Una sensazione complessiva di “segretezza” e di originalità, fa di queste opere un “unicum” da accogliere come provvidenza rara e irripetibile. Il mistero e lo stupore vi si accampano, come elementi  permanenti, di distinzione e novità rispetto a ciò che è stato fatto sinora nell’arte ceramica. Documento di una libertà “virile” e di un’autenticità che garantiscono l’assoluto valore dell’artista.
Ma chi può negare che in tutto ciò non sia assente un’affettuosa fedeltà, e la gratitudine per l’insegnamento ricevuto nell’infanzia da uno zio “toccato” da altrettanta originalità nell’unire sapienza artigiana e poesia?
Sembra confermarsi in ciò una tradizione, o saga familiare, che a tutti gli effetti  potrebbe intitolarsi “dei Ceccaroni”.
Lucio Del Gobbo
.............................................
Questo scritto è sintesi di una lunga intervista che Piero Ceccaroni rilasciò allo scrivente il 21 novembre 1995. L’incontro si svolse nella sua residenza recanatese, adibita in parte a studio. Presenti, oltre l’Artista, sua moglie Erika, e sua sorella Maria Grazia, anch’essa artista e frequentatrice della piccola cerchia che Rodolfo Ceccaroni aveva raccolto  intorno a sé nelle cantine del suo palazzo, svolgendo per diletto attività di ceramista. Si è inteso così, seppur vagliando dal tracciato sonoro, offrire un  “documento”  ritenuto prezioso  per la conoscenza intima  e diretta della poetica e  del pensiero dell’Artista.

 
    Associazione culturale "Alberto e Umberto Peschi" per le Arti Visive  - 62100 Macerata, via G.Verdi 10A;  email:  associazionepeschi@virgilio.it
Torna ai contenuti | Torna al menu